Ogni tanto, come provocazione, mi capita di sostenere che, rispetto alle abilità degli uomini primitivi, siamo tutti portatori di handicap: innanzitutto, per la rigidità muscolare che contraddistingue i “civilizzati”, potremmo essere definiti spastici in contrapposizione alla scioltezza di un corpo integrato; inoltre siamo fortemente ipovisivi, non dimentichiamo che i nostri dieci decimi sono quasi cecità rispetto alla vista dei Boscimani che a più di 600 metri identificano le tracce di un animale da un solo filo d’erba spezzato mentre magari stanno guardando da tutt’altra parte. Non parliamo poi del fatto che non riusciremmo a mantenere il loro passo nelle marce di trasferimento, nemmeno se disponiamo di un valido fondo atletico, a causa della nostra deambulazione scoordinata e inefficiente. Potremmo considerarci deficitari nelle abilità di spostamento. Si consideri poi che, oltre a tali handicap fisici, rispetto alle popolazioni che mantengono uno stile di vita primitivo, mostriamo una certa inclinazione alla nevrosi e alla psicosi: insomma probabilmente, se vivessimo con loro, essi istituirebbero la figura dell’assistente per noi.
Quale sarebbe la nostra reazione? Forse un po’ di scoraggiamento, forse vorremmo che ci venisse dato tempo e modo di apprendere le abilità necessarie… e le apprenderemmo perché in qualche modo “le abbiamo dentro”.
È ora di cambiare paradigma
Le potenzialità intrinseche dell’essere umano sono un argomento di indubbio fascino; è avvincente pensare che record “impossibili” vengano battuti, che malattie inguaribili siano superate, o anche solo che, col metodo adeguato, si possa apprendere con relativa facilità una lingua straniera o qualunque altra abilità. Da anni, dunque, il mio lavoro è centrato sullo sviluppo del potenziale umano: aiuto le persone a capire e a realizzare la loro reale e primitiva abilità d’apprendimento, sia sotto il profilo motorio che sotto quello emozionale/attitudinale: la percezione dell’essere arcaico che vive in ogni persona mi porta a intendere ogni essere umano come un insieme di potenzialità e non come un insieme di patologie; tale approccio è ancora più vero nel mondo di ciò che generalmente chiamiamo handicap.
Chi ha subito un trauma o una malattia che ha lasciato delle conseguenze debilitanti più o meno gravi deve, prima di tutto, realizzare che molto del suo potenziale, che prima della crisi non era stato attivato, può ora venire utilizzato non solo per coadiuvare il processo di guarigione ma anche per apprendere nuove interessanti abilità. Il processo di crescita e maturazione personale è semplicemente “automatico”, dura tutta la vita ed avviene senza sforzo cosciente; il nostro sistema è calibrato per il continuo apprendimento e per l’evoluzione.
Quando espongo tale concetto molti obiettano, facendomi presente che, se realmente fosse così, si starebbe tutti bene e saremmo tutti “buoni”, mentre sappiamo che la realtà differisce notevolmente. Il punto è che, molto più spesso di quanto crediamo, ci impediamo letteralmente di apprendere nuovi modelli di comportamento o ci blocchiamo, evitando di sperimentare risorse che poi si rivelerebbero utili: il tutto avviene a causa di interferenze presenti nell’ambiente che ci circonda e nell’ambiente che abbiamo dentro: una volta eliminata, o meglio, evoluta l’interferenza procediamo tranquilli verso un modo di esistere migliore e più funzionale.
Molti aspetti del processo di guarigione possono essere considerati come apprendimenti. Imparare nuove abilità è un aspetto fondamentale per il superamento di un momento difficile, come può essere la riabilitazione dopo un trauma. Ad esempio, se durante la riabilitazione di un arto impariamo, o meglio, re-impariamo, a respirare naturalmente, in maniera completa, utilizzando cioè al meglio la funzionalità degli organi preposti, tutto il nostro organismo ne avrà un beneficio tangibile: infatti i tanti processi organici collegati in qualche modo a tale funzione ne trarranno giovamento, anche i processi del pensiero. Quindi, un organismo che funziona meglio si riprenderà prima e meglio di come sarebbe avvenuto se fosse stato trattato solo l’arto in questione, poiché tutte le istruzioni inconsce che portano alla guarigione non trovano ostacoli di sorta.
Purtroppo la nostra naturale predisposizione all’apprendimento spesso si ritrova bloccata a causa di alcuni modelli comportamentali acquisiti nella famiglia d’origine o dal contesto sociale; comunque, tramite una metodica appropriata, non è poi così difficile oltrepassare tali ostacoli.
Ostacolo o opportunità?
Come accennavo, il primo salto di qualità consiste nel ragionare in termini di opportunità e di risorse invece che di stasi e di ostacoli. Ad esempio potete pensare ad un vostro “punto debole” in due modi: il primo è quello standard tipo: “Sono un disastro in cucina”, il secondo può essere : “in cucina ho ampi margini di miglioramento!”
Ora pensate a un vostro punto debole e provate a ripetervi un po’ di volte la prima frase (naturalmente adattando il contenuto): percepite che emozione vi dà, che pensieri vi suggerisce. Poi ripetetevi invece la seconda, sentite la reazione e notate le differenze. Esistono centinaia di modi per orientarci verso una percezione di noi stessi e degli altri più produttiva, questo è solo uno.
Integrazione corporea o psicofisica e integrazione sociale
Una cosa che rilevo costantemente durante le mie consulenze è che non si può scindere l’integrazione corporea o psicofisica dall’integrazione sociale… Sembrano due cose molto diverse ma non è così: se un nucleo sociale è “problematico”, è molto difficile che i suoi componenti siano in salute e gioiosi. La socialità e quindi la comunicazione, intesa come serena e continua interazione con gli altri, può considerarsi uno dei fattori basilari per la nostra salute; attraverso continue azioni, dirette e indirette, l’ambiente esterno influenza e modifica l’ambiente interno.
Nelle popolazioni primitive l’accettazione della diversità è qualcosa di talmente ovvio e naturale che non riuscirebbero nemmeno a concepire l’emarginazione su tale base.
Il nostro modello culturale ci ha purtroppo condizionato ad un “etichettamento” delle persone in base a fattori esterni, identificando un essere umano attraverso un sostantivo riferito ad una condizione socio-economica, tribale, razziale, sessuale, sanitaria o relativa all’età. Non sostengo assolutamente che tali fattori siano da ignorare o che non abbiano peso sull’identità della gente; vorrei solo riflettere un attimo su come le etichette e le categorie portino troppo spesso alla separazione tra individui e quindi all’emarginazione: non solo separazione “sociale” in classi o quant’altro, ma anche distacco all’interno di nuclei familiari e di gruppi vari.
L’esclusione è, credo, uno dei massimi motivi possibili di sofferenza per un essere umano; lo è ancor più se chi viene, anche solo parzialmente, emarginato risente già di una condizione sotto certi aspetti deficitaria come, ad esempio, uno stato patologico o un handicap. In un momento di sofferenza sentire l’appoggio di altre persone è forse la cosa più importante, un sostegno irrinunciabile; lo stare assieme da sicurezza, avere amici e parenti vicino che cercano di comprendere la nostra situazione e di esserci di aiuto ha un valore inestimabile. In momenti di non sofferenza, come appunto possono essere quelli ricreativi o di apprendimento, la condivisione è altrettanto importante: la comunicazione è un riscontro oggettivo fondamentale per l’evoluzione ed il proseguimento di uno stato emozionale positivo.
L’apprendimento, l’evoluzione, la crescita e la maturazione personale, spesso identificati come percorsi solitari di severo confronto con sé stessi, sono processi attuabili con molta più facilità se concepiti nei termini di apertura e condivisione con un gruppo, quanto più possibile ampio ed eterogeneo.
Il percorso di vita personale di una persona con un handicap o con qualunque altro problema è, sotto molti aspetti, identico a quello di qualunque altro essere umano: imparare a conoscere e ad accettare le proprie caratteristiche individuali e personali; ricongiungersi con le proprie parti emotive e con la propria profonda istintività; imparare a riconoscere in noi la grandissima plasticità che contraddistingue gli esseri umani e quindi svilupparsi in maniera eclettica, variegata e più polimorfa possibile; cercare di godere delle cose positive e saper affrontare i momenti brutti. Si potrebbero riempire pagine e pagine elencando le somiglianze… ovviamente c’è anche qualche differenza, sicuramente qualche difficoltà in più ai nostri occhi, difficoltà che comunque possono essere re-interpretate in maniera tale da non risultare un handicap ma una caratteristica. Proprio grazie alla nostra grande plasticità ed alla nostra capacità di apprendimento possiamo cercare di migliorare, ove sia possibile, i nostri lati deboli e soprattutto sviluppare tante altre abilità che non sono minimamente intaccate dalle suddette debolezze, anzi a volte ne sono rinforzate.
Milton Erickson, secondo molti il più grande terapeuta del secolo scorso, quando veniva intervistato a proposito della sua quasi soprannaturale sensibilità nel leggere ed interpretare i sintomi delle persone, esordiva dicendo più o meno così: “Fortunatamente ho fatto due volte la polio da piccolo, il fatto di dover stare a letto mi ha sviluppato la capacità di osservare, ascoltare e capire le persone…”.
Risveglio e alba ! Tutto sta a ritrovare posto e tempo nel difficile mosaico… Vedremo…Grazie