Esistono ancora, anche se c’è chi fa di tutto per sterminarle, alcune popolazioni che mantengono uno stile di vita del tutto primitivo. Il criterio di discernimento fondamentale è il tipo di sussistenza: infatti intendiamo con popolazioni primitive quelle che non praticano l’agricoltura e l’allevamento vivendo invece di raccolta, pesca e caccia. Tra la maggior parte di queste popolazioni gli antropologi hanno individuato alcune caratteristiche comuni, più o meno, a tutti i gruppi tra le quali spiccano una grande socialità che si manifesta tra l’altro nella totale mancanza di diffidenza verso gli estranei, gli stranieri e chiunque sia in qualche modo “diverso”; un quasi sconfinato senso di solidarietà verso chi si trova in un qualunque stato di difficoltà ed una sorta di pace/allegria in fondo ad ogni loro stato d’animo.
Un’altra caratteristica rilevante è l’insieme delle abilità del singolo: atletiche, manifatturiere e narrative; oltre al possesso di una vasta cultura sui “segreti” della natura delle piante medicinali, dei processi di lavorazione delle materie prime e di tutto quanto possa essere funzionale alla sopravvivenza ed al benessere del gruppo. Non è questa la sede per approfondire dettagli antropologici, né tantomeno ritengo di esserne in grado, basti comunque sapere che i membri di tali popolazioni vivono molto raramente, per non dire mai, stati di conflitto.
Iniziamo dunque a vedere alcuni esempi di chi sono e cosa fanno questi personaggi; ma non facciamolo con l’occhio del “documentario”, o pensando: “che carini”. Ricordiamo che queste civiltà, a differenza di altre, hanno saputo integrarsi perfettamente con l’ambiente, con le risorse naturali, coi loro simili… ed anche con chi non gli è simile.
I Raramuri
Immaginiamo per un attimo questa scena: un corridore Statunitense, un podista di fama, si sta allenando, correndo lungo una di quelle infinite strisce d’asfalto che attraversano gli stati del sud; Ken Chlouber, questo è il nome dell’atleta, è in perfetta forma, si sta preparando per “l’ultramaratona“, la competizione podistica forse più estrema del mondo. Ebbene, proprio quando sta allungando la falcata, proprio quando sta spingendo un po’ di più la prestazione del suo organismo perfettamente allenato…. si vede superare da un altro corridore che “sfiora” il terreno senza alcuna fatica apparente, vestito con un poncho di stoffa dai colori sgargianti e con ai piedi un paio di vecchi sandali di corda. Paradossalmente la prima reazione di Ken, è stata quella di volgere lo sguardo alle proprie calzature ipertecnologiche e pensare: “Forse sto spendendo troppo in scarpe…”.
Victoriano Churro, il corridore in sandali, la settimana dopo, con lo stesso abbigliamento, taglia per primo il traguardo dell’ultramaratona. Vic non è rimasto impressionato dalla lunghezza e dall’asperità del tracciato: egli appartiene ai Tarahumara, una popolazione nativa della Sierra madre occidentale (Messico), per cui la corsa costituisce la base del proprio stile di vita. I Tarahumara sono noti agli antropologi proprio per le loro incredibili capacità fisiche: gli adulti possono correre 110 chilometri al giorno, alcuni sono arrivati a correre più di 270 chilometri senza pause, il tutto, rammentiamo, su terreni impervi e con forti variazioni altimetriche. Non c’è da stupirsi se i Tarahumara, nella loro lingua, definiscano loro stessi come Raramuri, corridori: tale abilità nasce direttamente dal confronto con l’ambiente, è una delle tante potenzialità dell’essere umano, che si esprimono se adeguatamente stimolate e che si perdono con uno stile di vita non naturale. Al pari di tante altre popolazioni primitive i Raramuri non solo hanno sviluppato incredibili capacità fisiche ma conducono anche una vita sociale densa ed appagante; i legami famigliari sono tenuti in grande considerazione, così come quelli di amicizia, vi è una grande apertura verso la cultura e le tradizioni dei popoli limitrofi, così come verso chiunque altro.
In particolare c’è un episodio esplicativo della loro mentalità: durante la prima edizione dell’ultramaratona a cui partecipavano, i Raramuri non si servivano dei punti di ristoro perché si preoccuparono che non vi fossero viveri a sufficienza per tutti i partecipanti; fu solo nelle edizioni successive, dopo essere stati rassicurati e convinti della sovrabbondanza delle scorte, che accettarono i rifornimenti.
Quasi a dispetto di questo loro atteggiamento, ora i Raramuri sono a rischio di estinzione (come tutti noi) a causa del massiccio disboscamento che sta devastando le foreste della Sierra madre occidentale.
La visione come creazione del mondo
I cosidetti aborigeni australiani sono una continua fonte di stupore per l’incredibile profondità della loro cultura, o meglio, della loro concezione del mondo. Al pari di altre popolazioni di raccoglitori-cacciatori hanno dimostrato doti fisiche e sensoriali che sfiorano l’inspiegabile ma, è la loro percezione dell’esistenza (di loro stessi e della realtà) a possedere delle peculiarità difficilmente riscontrabili, almeno ad un così ampio livello di diffusione, presso altre popolazioni.
E’ il canto a creare tutto ciò che esiste, quindi, tutta la realtà che ci circonda è “stata cantata”… il canto rituale aborigeno, detto “corroborees”, è una pratica sofisticata ed al contempo primordiale, permeato di danza , mito, storia e ritualità; la mappatura della realtà avviene a più livelli: vi è la rappresentazione e la concezione della stessa in sincronia. Analizzare il “canto” col nostro modo di pensare è fonte di confusione: lo scrittore Bruce Chatwin descrive l’atmosfera prodotta dall’incontro tra il modo di pensare occidentale e quello aborigeno, creando una sorta di realtà interstiziale apparentemente inesistente ma solida come un muro, che impedisce ai bianchi di comprendere la potenza del messaggio dei canti se non in modo superficiale, apprezzando l’estetica dei prodotti della loro arte come pitture, incisioni, composizioni, ecc.
Per comprendere la complessità e “l’organicità” del pensiero dei nativi Australiani possono esserci di aiuto alcune recenti teorie di epistemologia della conoscenza: la cibernetica, il pensiero sistemico e le nuove ipotesi sull’intelligenza artificiale possono riallacciarci, in parte, alla comprensione di quel modo di esistere unitario che si rivela così bene nei canti. Ma sarebbe solo conoscenza filtrata, riportata e comunque non interiorizzata. I nativi non parlano dei canti, i nativi cantano. E nel canto, che poi è anche danza, preghiera, raccolta di cibo, ci sono le leggi, le teorie, i suggerimenti… insomma la cultura. La cultura non scritta ma performata, che si invera e si rinnova ad ogni ricorrenza, la cultura che alle sfumature linguistiche abbina quelle della voce e del suono, in un’unica vibrazione. Particolarmente significativo è l’esempio dello Didjeridoo uno strumento musicale e non solo, che in parte è manufatto dall’uomo ma il corpo base è costituito da un bastone scavato dalle termiti, questo strumento produce delle vibrazioni, un suono quindi alle orecchie dei partecipanti al canto ma ha un effetto ancora più potente sul suonatore: per suonare adeguatamente il Didjeridoo richiede che si respiri in modo ininterrotto; si applica quella che viene definita respirazione circolare. Gli effetti sono molteplici, soprattutto nella variazione del livello di coscienza e quindi nella percezione dello schema corporeo, non a caso questo modo di gestire il respiro è una pratica ascetica presente anche nello yoga e recentemente divenuta il fulcro di alcune discipline di sviluppo personale come ad esempio il Rebirthing, il Vivation, ecc. Quindi una pratica salutistica, introspettiva che è anche performance artistica e momento di comunione con la comunità… uno degli elementi più intimi che un individuo possa avere, il respiro, che diviene sostegno del canto, permeando il momento “più collettivo”.
Molto interessante, a mio avviso, anche il contenuto dei canti stessi; le leggi, ad esempio, sono cantate in modo molto chiaro e preciso: “non lasciate che i desideri divengano i vostri padroni; non coltivate l’egoismo: esso causa sofferenza a voi e a tutte le persone con cui siete in contatto” “quando donate, scegliete sempre il cibo migliore e date sempre due volte di più rispetto a quello che avete ricevuto”E soprattutto “il pensiero deve essere limpido: mentire a sé stessi costituisce un pesante imbarazzo”
Ma tali pensieri non sono assimilabili ad una legge, così come la conosciamo nella nostra cultura; né sono permeati dallo spirito di giudizio morale tipico dei principali sistemi religiosi, i cui precetti implicano per lo più una relazione causa effetto ben precisa; questi sono cantati, perché è col canto che divengono realtà: gli aborigeni dividono già il cibo e non c’è, o non sembra che ci sia il bisogno di una legge che lo imponga o suggerisca. Sottoposto a questo appunto, un vecchio Wirinum (uomo medicina) una volta rispose: “Certo che dividiamo: la condivisione è stata cantata!”
conoscevo gia i Raramuri e gli aborigeni australiani.
Ambedue prodotti di culture antichissime,sono popoli degni che come hai detto,probabilmente non resisteranno alla nostra avanzata.
I Raramuri ora vanno di moda(dopo l’ottimo libro “born to run”….)e gli aborigeni degradano spesso nelle periferie cittadine o si isolano nel deserto interno australiano.
Però:va ricordato che la loro cultura è frutto di condizioni-esigenze di sopravvivenza che sono tali perchè sviluppate in condizioni sostanzialmente immutate per un enorme numero di generazioni.
Si sono scremate così le metodologie di sopravvivenza necessarie,da cui,paradossalmente dipendono.
Osservati con onestà,oltre a constatare quanto di buono si potrebbe imparare da loro,non si può fare a meno di osservare la loro incapacità di adattarsi(come invece,tutto sommato,facciamo noi)a questo mondo in rapido mutamento.
Per molti versi noi abbiamo l’attitudine a sopportare-con tutti i malesseri del caso-la velocità con cui cambia la tecnologia,la quantità di informazioni che ci arriva,lo stile di vita instabile e frenetico che ben conosciamo.
Mi chiedo francamente in che modo,le tante cose che potremmo osservare da queste culture in estinzione,possano mai servire a noi moderni,insaziabili divoratori di questo mondo in corsa.
Ciao e grazie per il tuo commento,
la loro capacità di adattamento forse ti può sembrare scarsa ma considera che in molti casi sono stati cacciati dalle loro terre e culturalmente violentati in molti modi. Non credo che noi ci adatteremmo meglio di loro.
Ciò che possiamo imparare da questi popoli non ha fine 🙂
1) Il nostro sistema economico ormai al collasso ha bisogno di nuove idee e sono parecchi gli esperti del settore che vedono nelle forme di economia solidale di certe popolazioni, alcuni modelli perfettamente integrabili per migliorare la situazione attuale (vedi Massimo Fini, Rob Hopkins, Bill Mollison e tanti altri)
2) La gestione dei rapporti famigliari:Bert Hellinger, sicuramente una delle massime autorità in materia, è stato fortemente ispirato proprio dal suo lungo soggiorno presso popolazioni tribali del sudafrica, Ashley Montagu ha osservato la finezza e la delicatezza delle forme educative di questi popoli per formare adulti sani, soddisfatti e collaborativi, Jean Liedloff dopo approfonditi studi sulla relazione parentale ha osservato come molti dei disagi tipici della nostra società semplicemente sono evitabili incorporando alcune modalità ben presenti n queste popolazioni. Studio questi ed altri autori da tanti anni e il mio lavoro sul campo mi conferma la validità delle loro intuizioni.
3) Il rispetto e il senso di connesione con l’ambiente naturale, non come elemento da sfruttare ma come ambiente nel quale vivere relazionandosi armonicamente ad ogni elemento presente in questo
4) Le attitudini esistenziali ed emotive
La gestione delle dinamiche fondamentali dell’esitenza, dall’aggressività al gioco, dal sesso al senso del trascorrere del tempo, emergono concetti di insospettata profondità e soprattutto molto funzionali.
5) Le capacità di collaborazione e l’approccio intersoggettivo all’esperienza
e veramente tanto, tanto anacora 🙂